sabato 25 novembre 2017

Videogiochi, non Retrogame



Termine che qui non viene e non verrà utilizzato poiché desueto, limitante, quasi morto. 

Un paio di settimane fa ho acquistato dal PlayStation Store il bundle contenente ambedue le Mega Man Legacy Collection, al prezzo scontato di circa 11,99 euro. In sostanza, al costo di poco più di un caffè l’uno, mi ritrovo sulla stessa console l’intera decalogia (curiosamente Word mi sottolinea questo termine, evidentemente non vi sono molte saghe da 10 episodi) dell’omino blu di casa Capcom. Certo, per i primi 8 episodi avrei potuto utilizzare un comodo emulatore e non spendere un centesimo.

Però ripeto: un caffè l’uno, ma di cosa stiamo parlando.

Ma qui non voglio esternare né glorificare il digital delivery e le sue sempre succulenti offerte, che ormai arrivano a farti pensare di essere un vero pezzente ad emulare giochi che legalmente ti tirano dietro a 1,50 euro (il che, è positivo), ma mentre percorrevo i livelli dei primi Rockman, oltre a ricordare quanto bastardi fossero (le piattaforme fluttuanti che sparano ai lati sono un capolavoro di malvagità), mi è venuto da riflettere: ma è questo quello che da sempre definiamo retrogaming?
Cosa è, effettivamente, il retrogaming? "La passione per i videogiochi del passato", dice una striminzita pagina di wikipedia. Sì, ma quale passato? Boh, il passato può essere anche sei mesi fa, per quanto ci riguarda. Il retrogaming stesso sembra relativo: per alcuni finisce con il Dreamcast, per altri con la PlayStation 2, per altri ancora diviene retro ciò che esce di produzione, quindi il Wii U (2013) è già retrogaming, mentre il 3DS (2011) no. Ecco il primo problema di questo termine: non ha una definizione precisa, temporale, e come vedremo, pratica. E una parola così astratta, perde di reale utilità.

Rockman 1, esattamente come nel 1987... e un trofeo
C’è pertanto il retrogamer duro e puro, questo esemplare che ti dice che non è retrogaming se non utilizzi la macchina originale, la cartuccia originale e, possano fulminarti se fai il contrario, un comodissimo televisore CRT! Già, perché a trent’anni passati, con un monolocale di 50 mq, o nel migliore dei casi un bilocale condiviso con una dolce metà, chi vuoi non abbia un posto per un essenziale televisore CRT con SNES, Mega Drive e Amiga attaccati? Le passioni in quanto tali non devono avere una loro logica e non si discutono, sia chiaro, ma siamo seri, questo tipo di (ri)scoperta del passato non è sostenibile. Ma soprattutto, bisogna scindere il discorso collezionismo, che è un concetto a parte, perché possiamo possedere anche tonnellate di VHS anni ’80, ma è un accumulo fine a sé stesso giacché è molto più comodo guardare film in DVD o acquistarli in digitale, se si è appassionati di quei film. La comodità e la sete di scoperta da sempre collidono con il costoso collezionismo (da qui, l’indiscusso fascino di quest’ultimo), e il retrogaming non fa eccezione, anche se va detto che sì, senza dubbio un certo tipo di retrogaming necessita di determinati requisiti per mostrare la sua essenza originaria, inutile dire che attaccare una vecchia console su un LED 42 pollici non sia proprio la cosa più intelligente da fare, i giochi e le pupille ringrazieranno.

Ma non è questo il caso della Mega Man Legacy Collection che, per una dozzina di euro, ti dà ciò che, secondo una mentalità retro-integralista, avrebbe richiesto: 1 NES, 1 SNES, 1 PlayStation (o Saturn) e 1 PlayStation 3 (o Xbox 360), con relative cartucce (magari con quelle orripilanti cover USA) e CD-Rom, ovviamente. Spesa totale? E chi lo sa, ma non è una mera questione di denaro, bensì di diffusione di proprietà intellettuale. Una pubblicazione per il publisher così a basso costo sui canali digitali, in termini di diffusione dell’opera vale più di qualunque raduno di retrogamer e gruppi facebook che tentano di convincere il passante quanto sia bello Mega Man, sul NES o con gli emulatori, la quale è definibile come una attività certamente e come sempre di utile divulgazione (se è ben argomentata e non solo nostalgica), ma comunque passiva e autoreferenziale. Se Capcom o altre della sua specie non fanno che autocelebrarsi, continuando a pubblicare collection e remaster varie, è perché evidentemente c’è un pubblico, pagante (ed è questa la cosa che a loro interessa), sempre pronto ad aprire il portafoglio per questo o quel classico del passato.

Ed è un bene perché vuol dire che i videogiochi non si svalutano fino a raggiungere una sorta di morte commerciale, come magari si pensava fino a qualche anno fa, giustificando così l’emulazione; nessuno si scandalizza se Disney rivende i suoi Classici su Blu-ray, nessuno si scandalizza se su Netflix si trova il Cleopatra del 1963, ciò che bisogna realizzare è che acquistando una console odierna non si compra più solo una console di videogiochi, ma anche e soprattutto il suo servizo, un servizio che ti permette di giocare a Bubble Bubble e ai classici NeoGeo. Chi scrive possiede comunque una discreta collezione di videogiochi di ere trascorse, e non può che ammirare quelle altrui, ma al contempo non si fa problemi a ricomprare un classico che già possiede, a volte per miglioramenti annessi, altre per una non banale questione di comodità e preservazione del corrispondente fisico (se ho un gioco in digitale, non rischio di usurare il suo disco e utilizzo meno la sua console).

6,99€ e via verso i 100 Mega Shock
Tornando quindi al principio, questo è definibile retrogaming? Ha ancora senso parlare di retrogaming quando vedi Metal Slug venduto accanto a Horizon: Zero Dawn? Basta un accesso agli shop digitali e qualche click per diventare "retrogamer" (ed è forse questo che ad alcuni non va giù, dato che ne vedono vanificati sforzi passati), oppure più idealmente i videogiochi stanno finalmente raggiungendo quella coscienza di sé, tale da permettergli di non perire dinnanzi all’età, specie se in ballo vi è una constatata qualità di game design che non risente del passare del tempo? Chi può dirlo, chi può prevedere se i videogiochi potranno un giorno raggiungere quell’imperitura considerazione che hanno film e romanzi, ma provare ad abbandonare la parola retrogamer, etichetta di connotazione nerd che qualcuno ama appiopparsi addosso solo per distinguersi o creare community, e che non ha alcun corrispettivo negli altri ambiti (provate a dire "oggi ho fatto un po' di retrolettura" senza essere presi per il culo), può essere il primo passo. Fase che comunque altri stanno già percorrendo, Nintendo non utilizza tale termine per vendere le sue recenti pseudo-console Mini, Microsoft non definisce "retrogaming" la retrocompatibilità delle sue console, dimostrazione che neanche in ambito marketing questa classificazione viene utilizzata con effettiva efficacia.
La parola retrogamer può avere ancora un senso qualora si voglia, per scelta e gusto personale, circoscrivere una propria preferenza (c'è chi di videogiochi moderni, non ne vuole proprio sapere), e ci sta, ma dal punto di vista giornalistico, di analisi e di approfondimento storico, nel momento in cui l'argomento trattato sono i videogiochi e i videogiochi soltanto, scevro da componente accessoria-collezionistica o da fazioni, per i motivi sovraesposti è lecito pensare che il suo utilizzo non abbia (più) alcuna utilità.

Pertanto nel suo piccolo, in questo luogo, capita di trovare la recensione del recente Yakuza Zero seguìta a ruota da Makeruna! Makendō, senza etichettatura “retro” e simili a bollare una diversità che, in fondo, è solo anagrafica.

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