Nei suoi migliori momenti, tra i più coinvolgenti della storia di Square Enix, Final Fantasy VII Remake gestisce con estrema naturalezza e lucidità tanto il dramma quanto i dialoghi vivaci, con situazioni dal forte calore emotivo, riportando il giocatore di ruolo, maturato, al punto nel quale il suo viaggio ha avuto inizio 23 anni fa, dandogli però una nuova prospettiva. Perché qui alzi lo sguardo e vedi lo squarcio lasciato dal Settore 7, e rimani in silenzio per qualche secondo. Il “Rebuild” mantiene spunti e tematiche ecologiche dell’originale, aggiungendo nuovi elementi narrativi che purtroppo, pur sulle prime interessanti, cagionano in un finale non privo di goffaggini (a esser buoni), nella sua spasmodica e artificiosa ricerca di pathos.
La cupa metropoli di Midgar, capitale dell’energia Mako, è di fatto sotto il totale controllo, tecnologico e militare, della compagnia Shinra, la quale estrae e sfrutta la linfa vitale del pianeta per produrre energia. Per questo motivo si contrappone al suo potere l'organizzazione di resistenza Avalanche, deciso ora a passare ad azioni più concrete; il gruppo capitanato dal possente Barret ingaggia così Cloud Strife, un ex membro dei SOLDIER, ossia i soldati scelti al servizio della Shinra, per distruggere uno dei reattori Mako.
Gli intoccabili non esistono e tutto è migliorabile. Un rifacimento non ha necessariamente uno scopo sostitutivo, ma può essere complementare. Approcciarsi a Final Fantasy VII Remake con questi due principi è un aiuto
fondamentale alla sua comprensione, di contro il feticcio adolescenziale acceca
il pensiero e distorce lo sguardo, e il più famoso capitolo della saga RPG della fu
Squaresoft non può che aver assunto negli anni il ruolo di manifesto di
sacralità novantina tale da far definire quasi una follia qualsivoglia opera di
ricostruzione.
Il remake non l’ha di certo inventato Final Fantasy VII
nell’anno 2020, non è il primo neanche nella sua saga di appartenenza e non
sarà l’ultimo, ma viene da sé che tra il numero IV e il numero VII vi è una
sostanziale differenza di responsabilità, per quanto opinabile si possa
definire questo concetto: fino a quanto un creativo deve tenere conto della
percezione pregressa che ha il “fandom” di una determinata opera, che sfocia in
idealizzazione? Questa è la domanda che sopra a tutte si è insinuata sullo
scorrere dei titoli di coda di Final Fantasy VII Remake, rendendo di fatto
ridicoli tutti gli altri argomenti che hanno caratterizzato l’attesa
dell’ultimo colossal di Square Enix, dalla lunghezza della gonna di Tifa al
naso di Aerith, passando per timori su possibili rimaneggiamenti degli aspetti
più “weird” del gioco originale, sacrificati sull’altare di un presunto
politically correct, alla fine smentiti dai fatti (sarà tutto al suo posto, inclusa la malsana idea di Hojo di far accoppiare la cavia Aerith con dei Soldier).
Perché questa è buona parte del fandom di FFVII, ossia un pubblico ben poco
maturo che da totale vergine di esperienze del gioco di ruolo nipponico se ne
scoprì improvviso amante, poi supposto vate, non a caso è lo stesso rigurgito
generazionale del coevo Neon Genesis Evangelion, verso cui si accumuna un certo
grado di venerazione. Non uso il termine “sopravvalutato” perché l’ho sempre
trovato vago e soprattutto inutile ai fini di qualunque discorso, ogni cosa va
giudicata per quella che è e ciò che ci trasmette, a prescindere dalla
percezione o l’influenza che questa ha avuto sul suo pubblico di
riferimento. Ciò non toglie che l’impatto che ebbe Final Fantasy VII alla sua
uscita, specie per i giocatori occidentali, non ha eguali nel genere, e di
conseguenza il grado di rischio preso da Yoshinori Kitase e soci nel rimaneggiare tale
monumento storico non può essere paragonato certo a quello di un Seiken
Densetsu 3.
Ciò premesso, in perfetta rappresentanza del suo fruitore tipo, quello di Final Fantasy VII non è che un mondo adolescenziale, in cui converge tutto il paradigma delle fisse giovanili e subculturali degli anni novanta; il passaggio di character design da Yoshitaka Amano (o per meglio dire, Kazuko Shibuya) a Tetsuya Nomura è caratterizzato da una svolta di stile atta ad abbassare, dunque ampliare, il target di riferimento. I protagonisti adulti di Final Fantasy VI con i loro problemi esistenziali o gli intrecci geopolitici di Romancing SaGa, lasciano il posto ad un gruppo di rivoluzionari la cui carta di identità potrà anche attestarli sull’avvenire della maggiore età, ma che di fatto esaltano un certo modo di pensare, e di porsi, degli archetipi narrativi giovanili più in voga, dal triangolo amoroso (con tanto di date mechanic nascosta) passando per l’antagonista, la cui principale preoccupazione sembra essere quella di come entrare in scena. In tal senso, il tanto elogiato episodio VII non è poi così diverso dal tanto vituperato episodio VIII, "reo" di aver accentuato la componente sentimentale (come fosse un delitto), nonostante i decisi quanto stucchevoli tentativi dei fan del primo di demarcarne le differenze. Il divario tra le due storie sta innegabilmente nella scrittura, i personaggi di Final Fantasy VII sono scritti divinamente, immediatamente riconoscibili e al contempo profondi, e il setting, un cyberpunk con componente ecologista in linea con i tempi (il Protocollo di Kyoto è proprio del 1997), è ancora oggi fra i migliori mai concepiti dalla casa giapponese.
Questo i suoi autori lo sanno benissimo e Final Fantasy VII Remake, nella sua ricerca scenografica e iconografica, gioca con efficacia su quella linea tra ricostruzione fedele e voglia di stupire, ricorrendo a collaudati stilemi narrativi della serie per far leva tanto sul fattore nostalgia quanto sull’obiettivo di migliorare, ampliare, affidandosi ad un determinante apparato tecnico di grande suggestione, in cui i designer Square possono dare sfogo a tutto il loro talento visivo. L’avvolgente ambientazione di Midgar rappresenta senza dubbio uno dei maggiori punti di forza del gioco, che abbandona fin da subito qualsivoglia velleità da open world per proporre un approccio più tradizionalista, leggasi lineare, all’esplorazione; strutturalmente Final Fantasy VII Remake è l’esatto opposto di Final Fantasy XV, i due Final Fantasy usciti in questa generazione mai sarebbero potuti essere più diversi, in tutto, dalla metodologia dello sviluppo alla cornice visiva, dalla direzione della storia al gameplay, fino ad arrivare alle peripezie post lancio (tonnellate di patch e DLC per FFXV, vuoto totale per FFVIIR, “completo” senza pur esserlo). Con ciò non vuol dire che l’uno sia meritevole di mettere in ombra l’altro, pregi e difetti non mancano in ambedue le produzioni, e se si vuole parlare di ambizione, il Final Fantasy di Hajime Tabata rimane diverse spanne sopra, ma laddove la vastità delle regioni esplorabili di FFXV risultava a conti fatti inutile ai fini narrativi e di comprensione del mondo, FFVIIR preferisce circoscrivere il campo riempendolo di vita, di particolari, di piccole storie, ritrovando, servendosi dell'ultimo stadio tecnologico di PS4, quel modo di fare Final Fantasy che rendeva speciale ogni luogo, senza che la vocazione figurativa prevalga su quella contenutistica.
Ecco quindi che gli “slums” di Midgar prendono vita
rinvenendo scenari e suoni a noi familiari, attraverso però una prospettiva
inedita; luoghi interni come la casa di Aerith, il Seventh Heaven o la chiesa
del Settore 5 ricalcano fedelmente gli arredi di allora, con tutto il carico
emotivo che ne deriva, mentre gli esterni si prendono le dovute libertà, ampliando
dove necessario ma seguendo sempre una congrua logica degli spazi. Certo, alla
prima richiesta di “trova i gattini” nel Settore 7 il pensiero di trovarsi
dinnanzi a quel tipo di annacquamento, che tanto ha rovinato FFXV, emerge,
salvo poi scoprire, fortunatamente, un numero abbastanza ponderato di “quest” e
un loro utilizzo ben inserito al contesto. Insomma l’obiettivo principale in
FFVIIR rimane sempre focalizzato. Il gioco non dà quasi mai l’impressione di
deviare dal percorso originale, e quando lo fa, lo fa in maniera eccellente, con
il pensiero che va immediatamente a quel sorprendente Capitolo 4 il quale, oltre a
farci visitare un lato di Midgar a noi sconosciuto (la zona residenziale sopra
la piattaforma), eleva i membri di Avalanche da semplici comparse a veri
personaggi. Jessie in testa, calcolatrice, imprevedibile, attrice nata, capace
nella prima metà di mettere in ombra addirittura Tifa, se uno degli scopi di
questo remake era dare a tali personaggi di contorno un volto e una degna
caratterizzazione, questo obiettivo può dirsi perfettamente riuscito.
Aerith Gainsborough invece non era certo una lavagna vuota da riempire come Jessie, Tifa avrà il suo momento di gloria nelle fasi più avanzate della storia originale, ma la protagonista assoluta del “CD1” è senza dubbio la fioraia dagli occhi smeraldo, e in questo remake letteralmente giganteggia fin dalla sua prima apparizione, con un carattere frizzante e a tratti bipolare, il cui vecchio e superficiale adattamento non rendeva minimamente giustizia ai dialoghi; troppo superficialmente definita semplice civettuola con Cloud, Aerith si dimostra molto più matura e profonda, rivolta il “SOLDIER” come un calzino celando tuttavia dietro i suoi sorrisi una tristezza sempre più difficile da reprimere, oltre ad un timore recondito nei confronti del futuro, dell’ignoto (“la libertà, mi fa paura”), come se volesse congelare l’attimo. Il remake accentua tutti i lati del suo complesso carattere grazie ad un magistrale lavoro di animazione che diventa essa stessa una forma di narrativa, la quale trova il suo primo apice espressivo nel Capitolo 8, interamente dedicato al rapporto tra Cloud e Aerith; qui possiamo notare la ricerca dietro anche gli aspetti apparentemente più marginali, come quando la ragazza, per accompagnare Cloud verso il Settore 7, sceglie la via più lunga (e tortuosa) al solo scopo di passare più tempo con lui. Quando una volta giunti al parco Cloud scopre di essere stato manipolato, fa un sorrisetto come a dire “me l’ha fatta”. È un gioco di sguardi e di piccoli gesti, oltre che di dialoghi, non possibile nel 1997 (si veda anche l’incredibile espressione di Aerith quando fa il nome del “suo ex”), in tal modo il remake si prefigge lo scopo di migliorare addirittura l’originale, e in questi frangenti, ci riesce.
Il successivo capitolo del Wall Market era un po’ la prova
del 9 di questo Remake, la curiosità di scoprire come Square Enix avrebbe reso
una delle fasi più caratteristiche dell’originale sotto una nuova veste grafica
si mescolava al timore di assistere ad eventuali edulcorazioni in linea con i
tempi vigenti, timori che tuttavia si sono letteralmente sgretolati dinnanzi
all’evidenza della messa in scena di un quartiere del peccato che non solo non
nasconde il morboso fascino ammirato nel 1997, ma che addirittura lo valorizza.
Ispirandosi a quartieri come Kabuki-cho e Dōtonbori, il team di sviluppo dà qui
sfogo a tutta la sua “giapponesità”, senza vergognarsene (incluso l’assurdo
balletto all’Honey Bee), come se Ryū ga Gotoku si fosse improvvisamente
impossessato di Final Fantasy; perché questa era la vecchia Squaresoft, un’azienda
giapponese che infarciva le sue opere di un umorismo tipicamente giapponese. In FFVII Remake, forse per la prima volta da (e teniamoci forte) FF X-2, si ha
la sensazione di giocare ad un Final Fantasy che non prova soggezione nei
confronti delle produzioni occidentali ma che anzi esalta le sue eccentricità e
le sue contraddizioni, a costo di prendersi anche qualche rischio di “caduta di
stile”, rimembrando di come anche l’originale FFVII contenesse assurdità di
vario genere. È un processo di demitizzazione del feticcio, come a dire volete
Sephiroth, i Turks e le cose serie? Vi beccate anche Cloud che balla, le
trazioni e tutto il resto, perché questo era (è) FFVII, alimentando a questo
punto l’attesa per la Parte 2 di salti su delfini e Red XIII vestito da
marinaio.
La scelta di dividere il progetto del remake in più episodi,
inizialmente criticata e bollata come mero espediente commerciale, si dimostra
invece provvidenziale al team di sviluppo permettendogli di avere lo spazio,
nel vero senso del termine, di inserire tutto, ma proprio tutto ciò che
conteneva l’originale FF VII in questa prima parte dell’avventura. Inclusi
elementi marginali, piccole chicche, la cui presenza in un remake non era per
nulla scontata, come il minigioco dei pulsanti da premere in contemporanea o la
scena in cui Cloud deve uscire con fare “stealth” dalla casa di Aerith. Basta
ragionarci un attimo per capire che tutto ciò sarebbe stato praticamente
impossibile qualora avessero deciso di ricreare una tantum l’intero Final
Fantasy VII, con questa grafica e con questa cura, con tutti i dialoghi
doppiati; qui non c’è un solo NPC che si esprima in via testuale, a cui si
aggiungono tutte le voci in sottofondo, ore e ore di dialoghi che attestano un
valore produttivo fuori misura. La struttura episodica però bisogna saperla
gestire, in questo campo Nihon Falcom è maestra con la saga di The Legend of
Heroes, frutto di una tradizione di scrittura e di world building ultra decennale, mentre altri, come
Monolith Soft e la sua Xenosaga, ne sono usciti con le ossa rotte. I precedenti
di Square Enix, dalla frastornante gestione di Kingdom Hearts alla nefasta
trilogia di FFXIII, sono un lascito tutt’altro che confortante e le vaghe
dichiarazioni di Kitase e soci sull’episodio successivo, di certo non
tranquillizzano, complice anche un finale criptico che ha voluto strafare a
tutti i costi.
Il nuovo sistema di battaglia, un’ottima ibridazione tra classica turnazione simil-ATB (fortemente voluta da Nomura) per l’utilizzo di magie, tecniche e oggetti, e impronta action per i movimenti e gli attacchi corpo a corpo, è una consolidata base per il futuro, essendosi dimostrato infinitamente più strategico e appagante rispetto a quello di Final Fantasy XV. La gestione delle materie con slot di armi e armature è al suo posto, con le dovute modifiche e nuovi tipi di materie creati per l'occasione, mentre enormi passi avanti sono stati compiuti nel differenziare i quattro personaggi giocabili, sulle cui peculiarità offensive ci si potrebbe scrivere interi paragrafi, dalle divertenti combo di Tifa ai vari buff in dotazione di Aerith. Caratteristiche che emergono nelle spettacolari battaglie contro i boss che sapranno stupire anche il fan più esigente non tanto per il modo in cui sono stati realizzati, quanto per come sono stati contestualizzati e valorizzati anche i mostri più sfigati del gioco originale, dalla Casa Infernale (bellissima) al Sinuolamio (Sword Dance in FFVII), due casi di mostri comuni “promossi” a boss in modo sorprendente.
Un lavoro che si può definire monunentale è stato fatto sulla colonna sonora, che non si limita a riproporre brani storici con un nuovo arrangiamento, ma li amalgama in un unico corpus musicale, scegliendo perfettamente i tempi (la prima boss theme con l’Airbuster, proprio come nell’originale), una soundtrack che esiste in virtù delle sue metamorfosi con brani che cambiano di ritmo tra fase esplorativa e di combattimento, proprio come avviene in Nier: Automata, e chissà che non sia stata proprio quella la fonte di ispirazione per Masashi Hamauzu, scaturendo in un concetto di “novità della tradizione”, nostalgica e moderna al tempo stesso.
Tutto ciò attesta un amore e un rispetto smisurato nei
confronti di Final Fantasy VII, ed è per questo che non può che fare incazzare
quello stramaledetto Capitolo 18, che rischia di buttare alle ortiche quanto di
buono fatto in tutto il resto del gioco. I cambiamenti alla storia originale
erano messi in conto, i creatori sono gli stessi (manca solo Sakaguchi-san),
liberi dunque di fare ciò che vogliono con la loro creatura, ma è la messa in
scena a far crollare tutti i buoni propositi, con un concentrato di banalità e
inutile pomposità da lasciare letteralmente basiti; è come se
Advent Children, su cui si pensava avessero steso una pietra tombale, si fosse
improvvisamente impossessato di FFVII Remake, di colpo quei bellissimi personaggi regrediscono
di nuovo alla prima adolescenza, alla peggior Square Enix, dopo che per 17 capitoli
abbiamo visto la Squaresoft, sciorinando frasi sul destino e amenità varie che sembrano uscite da un Fairy Tail. Questa, è una caduta di stile, non certo Cloud che balla. Kitase
afferma che il senso di sorpresa è uno dei cardini della saga e per questo, piuttosto
che ricreare 1:1 l’originale FFVII, se ne sono usciti con questa cosa. Benissimo,
ma il Nostro sembra aver sottovalutato quel “senso di progressione”, da sempre
caratteristica dei videogiochi di ruolo, che non riguarda solo la forza dei
personaggi, ma anche la rappresentazione scenica, della serie che parti da un
villaggio sperduto, e arrivi a salvare il mondo combattendo un’entità soprannaturale. Ciò
ovviamente è un archetipo, ma dopo aver affrontato un boss del genere, cosa
potrà stupirci negli episodi successivi? Con quale ridondanza ti ripresenti con
la One Winged Angel, che da traccia potente nella sua unicità, rischia di
diventare un motivetto ricorrente da Trio Drombo? E allora, tutto perde di essenza, come del
resto il villain che rappresenta.
Non mi soffermerò su teorie e suggestioni dei Numen, di linee
temporali e di tutte queste cose su cui tanti si sono già ingarbugliati partorendo dozzinali di video, perché sarebbe fare il loro gioco, come da loro
stesso ammesso, passato l’hype per la Parte I sentivano il bisogno di
alimentare un dibattito così da accrescere l’attesa per l’episodio successivo;
ebbene no cari Motomu Toriyama, Tetsuya Nomura e Kazuhige Nojima, ci sarà tempo
per testare la bontà delle vostre idee, con i complimenti o con gli insulti,
senza cedere alla cultura dell’hype, la nostra attenzione è troppo importante
per essere rivolta a qualcosa di vago, artificioso e volutamente criptico, come il finale di
Final Fantasy VII Remake. Della serie non pensiamoci, ma passiamo oltre quel muro, verso un viaggio sconosciuto in attesa di scoprire cosa ci riserverà.
Una recensione spettacolare!
RispondiEliminaVorrei davvero poter giocare questo remake, essendo tra quelli che hanno scoperto i jrpg con FFVII, innamorandosene. Peccato che non possieda una macchina in grado di farlo girare... ��
L'unica cosa che probabilmente mi mancherebbe sono i combattimenti a turni, che ho sempre preferito alle versioni più "action".
Tempo un anno e dovrebbe uscire anche su PC.
EliminaCon il sistema di combattimento hanno raggiunto un buon compromesso, è action nei movimenti ma non è brainless come un Kingdom Hearts, permette di fermare il tempo e ragionare la mossa successiva proprio come nei turni, la demo rilasciata poco prima dell'uscita convinse anche i più titubanti. C'è anche una versione "Classica" tra le opzioni aggiunta nelle ultime fasi dello sviluppo, ma non la consiglio.